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Il Club – Recensione

Il Club: Con il suo cinema scomodo e accattivante allo stesso tempo, Pablo Larrain si conferma uno dei registi più interessanti degli ultimi anni

  • Titolo Originale: El Club
  • Regia: Pablo Larrain
  • Cast: Roberto Farías, Antonia Zegers, Alfredo Castro, Alejandro Goic, Alejandro Sieveking, Jaime Vadell, Marcelo Alonso
  • Genere: Drammatico, colore
  • Durata: 98 minuti
  • Produzione: Cile, 2015
  • Distribuzione: Bolero Film
  • Data di uscita: 25 Febbraio 2016

Il clubC’è un posto dove risiedono terribili colpe e indicibili peccati. Non è un luogo astratto o mentale, è un piccolo paese sulla costa cilena che porta il nome, quanto mai evocativo, di Boca dell’Inferno. Qui quattro preti ed una suora vivono assieme in una casa sul mare. La loro nascosta convivenza è imposta dall’espiazione di peccati che, nella versione laica della loro vita, sarebbero stati dei reati perseguiti dalla legge.

Sarebbe un errore grossolano farci fuorviare da questo incipit: non siamo nella dimensione della spicciola critica al mondo della Chiesa. Sì, è vero: “Il Club” potrebbe essere definito un film anticlericale per un suo evidente attacco a determinate dinamiche religiose. Il cinema di Pablo Larrain, però, non ci consente di fermarci alle apparenze. Il lavoro di propagazione concettuale insito in questo film, come nei precedenti (“No – I giorni dell’arcobaleno”, “Post Mortem”, “Tony Manero”) è talmente raffinato che sarebbe delittuoso sottintenderlo. Si mostra lo specifico per entrare in connessione con il mondo, viene dipinto uno sperduto paesino cileno per poter dialogare con l’umanità. Tutto questo grazie a una splendida tavolozza che ha un talento raro nel tratteggio di temi di grande respiro.

Il Club: l’uomo, lo status quo e la tendenza naturale a nascondere il male

È questo il titolo dell’odierna lezione del professor Pablo Larrain. Sulla sua lavagna compaiono le nostre oscurità rischiarate da una luce asettica che non giudica ma estrapola. È un piccolo barlume tentennante che ci guida, tra le tenebre e il chiarore, verso l’origine delle umane pene. Il discorso del regista cileno si dipana senza una meta, non ha alcun teorema da dimostrare e si smarca dalla velleità di avviare un processo, esigendo attenzione solo sulla meschinità di cui la nostra specie è capace. In sottofondo ascoltiamo il rumore di un ipotetico ago della bilancia che, senza tregua, ondeggia tra la dittatura di Pinochet (tema ricorrente nelle opere del regista cileno) e la Chiesa cattolica, non riuscendo a stabilire quale dei due sistemi abbia il peso più gravoso sulle menti e sulle anime.

Intanto, scena dopo scena, la pressione del peccato spinge la narrazione: cresce l’intensità del racconto alimentata d’improvviso da una ricerca spasmodica, e apparentemente salvifica, di un rimedio che possa coprire, celare e, dopo un po’ di tempo, far dimenticare ciò che non si può ammettere. Così appare, in tutta la sua magnificenza, la più grande uscita di emergenza dell’uomo: la tragica abilità di nascondere la polvere sotto il tappeto. Un tappeto simbolico che somiglia terribilmente a noi stessi e una polvere fatta della stessa materia dei nostri sbagli, delle nostre vergogne, delle nostre paure.

Riccardo Muzi

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