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Il caso Spotlight – Recensione

Il caso Spotlight: l’importanza dell’ensemble in un racconto semplice ed efficace

  • Titolo originale: Spotlight
  • Regia: Thomas McCarthy
  • Cast: Michael Keaton, Rachel McAdams, Mark Ruffalo, Stanley Tucci, Liev Schreiber, Billy Crudup, John Slattery, Len Cariou, Jamey Sheridan, Paul Guilfoyle, Lana Antonova, Brian d’Arcy James, Elena Juatco, Neal Huff, Laurie Heineman, Patty Ross, Shawn Contois, David Boston, Stefanie Drummond, Ariana Ruckle, Maureen Keiller, Krista Morin
  • Genere: Thriller, colore
  • Durata: 123 minuti
  • Produzione: USA, 2015
  • Distribuzione: Bim
  • Data di uscita: 18 Febbraio 2016

il-caso-spotlightUn prete viene accusato di pedofilia. La redazione del Boston Globe segue la storia non limitandosi al singolo caso ma costruendo un’inchiesta che la contrapporrà all’arcivescovo di Boston, probabilmente da sempre informato sui fatti.

“Il caso Spotlight” sembra essere stato scritto con la stessa metodologia con cui i giornalisti della sezione Spotlight del Boston Globe affrontarono il caso che li portò a vincere il premio Pulitzer. Thomas McCarthy e Josh Singer raccontano passo passo ogni dettaglio della vicenda che condusse alla denuncia di più di ottanta preti pedofili nell’arcidiocesi di Boston.

“Il caso Spotlight” può essere visto come una sorta di remake di “Tutti gli uomini del presidente”: la Chiesa e il Governo sono avversari intercambiabili, ciò che conta è la lotta condotta dai giornalisti contro le istituzioni che smettono di lavorare per proteggere i cittadini e pensano solo ai propri interessi. “Il caso spotlight” presenta una piccola aggiunta,: lo spettro di Internet incombe per tutto il film, ambientato nel 2001. Si capisce chiaramente da che parte stiano i realizzatori quando una musica trionfale accompagna le immagini di grandi rotative al lavoro.

Il caso Spotlight: la mano gentile e cauta di McCarthy

La camera accompagna lo spettatore con pochi movimenti precisi, seguendo gentilmente ogni spostamento dei protagonisti nel largo open space del Boston Globe, negli angusti uffici della sezione Spotlight e sulle strade di una grigia Boston.

Esemplare è una delle prime scene: con una chiarezza espositiva da maestro McCarthy si addentra nell’edificio che ospita il Boston Globe fino a mostrarne l’angolo più recondito (la suddetta sezione Spotlight) e ne costruisce una geometria interna che gli consente di rendere riconoscibile ogni ufficio e personaggio evitando di appesantire il resto del film con inutili didascalie o introduzioni.

La mano di McCarthy si fa ancora più leggera quando potrebbe indulgere in scene ricattatorie e strappalacrime. Le testimonianze delle vittime vengono riprese sempre con la camera ferma e con dei regolari campi e controcampi, in modo tale da valorizzare contemporaneamente le prove d’attore e la narrazione. “Il caso Spotlight” ha un ritmo costante e non cede mai a momenti di compassione verso le vittime o apologia dei protagonisti. Arriva, sorprende e coglie nel segno la scena che dà il via al climax finale, un’ellissi temporale della durata di un minuto che racconta solo con le immagini ciò che poteva essere messo in scena con mezz’ora.

La squadra Spotlight è sempre mostrata al lavoro in gruppo, ogni suo membro è pronto a sorreggerne un altro nei momenti di scoramento. L’unica eccezione si ha nella cosiddetta scena ‘attiraOscar’, tributo che McCarthy e Mark Ruffalo (chiamato a perdere le staffe e a cedere a un po’ di recitazione sopra le righe) devono pagare all’Academy per una nomination che alla fine c’è stata e per la pubblicità che ne consegue. Fortunatamente per il film e per lo spettatore Ruffalo è un attore sensibilissimo e capisce quando fermarsi, giusto un secondo prima della macchietta.

Jacopo Angelini

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