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Hannah Arendt – Recensione

Margarethe Von Trotta porta in scena l’emblematica figura della pensatrice Hannah Arendt, coniugandone sapientemente sfera pubblica e sfera privata

Regia: Margarethe von Trotta – Cast: Barbara Sukowa, Axel Milberg, Janet McTeer, Julia Jentsch, Ulrich Noethen – Genere: Drammatico, colore, 113 minuti – Produzione: Germania, Lussemburgo, Francia, 2012 – Distribuzione: Nexo – Data di uscita: 27 gennaio 2014.

hannah-arendtNota per aver realizzato opere impegnate, atte a portare sul grande schermo esperienze personali e tematiche politiche con un talento magistrale, la regista berlinese Margarethe Von Trotta, anche stavolta, non delude le aspettative del suo pubblico.

Partendo da un soggetto a dir poco impegnativo, la Von Trotta riesce a sintetizzare in maniera efficace e completa una delle figure femminili più significative del XX secolo, amalgamando alla perfezione il genio intellettuale Hannah Arendt al suo essere donna, profondamente ancorata alle emozioni e ai sentimenti umani.

Nel film si opera, dunque, un’analisi a tuttotondo del personaggio, equilibrando per bene le due nature della Arendt, in modo da metterne in luce sì il pensiero e il lavoro rivoluzionario, ma, al tempo stesso, anche la persona, il carattere e la personalità di donna forte, compagna e amica.

Per centrare l’obiettivo, il film prende in considerazione i quattro intensi anni della vita della filosofa ebrea, incentrati sull’osservazione del processo contro uno dei maggiori responsabili dello sterminio degli ebrei: il funzionario delle SS, Adolf Eichmann.

Una scelta, questa, tutt’altro che casuale, in cui si mettono a confronto due personalità estremamente opposte: da una parte la Arendt, ambasciatrice del pensiero e dell’importanza di pensare in maniera autonoma, e dall’altra Eichmann, rappresentante di una cieca obbedienza e fedeltà a una causa, non importa se giusta o sbagliata.

Proprio grazie a questo confronto, il film esalta appieno la personalità della Arendt e il principio alla base del suo pensiero che ben si riassume nella storica frase “Nessuno ha il diritto di obbedire”: il fondamentale rifiuto, cioè, di obbedire a niente che non sia dettato dalla propria conoscenza o convinzione.

Assumendo in maniera obiettiva il punto di vista della Arendt, il film guarda ad Eichmann con gli stessi occhi della filosofa, smitizzando la figura mostruosa del funzionario nazista, arrivando, piuttosto, a ridurlo a uomo banale, profondamente mediocre. Un aspetto che viene catturato anche, e soprattutto, attraverso l’utilizzo nel film di filmati d’archivio tratti dal reale processo del 1961; e, in effetti, chi meglio avrebbe potuto interpretare la mediocrità di Adolf Eichmann se non lui stesso in persona?

Ma, come accennato, il film mette anche a nudo la sfera privata di una grande donna, il suo saper essere compagna di vita e, soprattutto, grande amica. Si tratta di una parte del film che non solo è utile allo spettatore a inquadrare pienamente il personaggio e le sue molteplici sfaccettature, ma, al tempo stesso, che aiuta a rendere la pellicola ‘leggera’ nel momento in cui la tensione arriva alle stelle.

Ecco che allora vediamo la straordinaria attrice Barbara Sukowa incarnare le due nature della Arendt, quella dell’intellettuale forte e combattente da una parte, e quella di donna, moglie, amante e amica, perennemente divisa tra i suoi sentimenti e i suoi pensieri.

Il risultato è, infine, una pellicola che supera i confini del biopic, in grado di ritrarre appieno una figura brillante e renderne comprensibile l’illuminante, quanto mai attuale, pensiero.

Francesca L. Sanna

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