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Funny Games – Recensione

Un remake ad uso e consumo del pubblico angloamericano, per aumentarne la consapevolezza sul tasso di assuefazione alla violenza cinematografica e televisiva

(Funny Games U.S.) Regia: Michael Haneke – Cast: Naomi Watts, Tim Roth, Michael Pitt, Brady Corbett, Evon Gearhart – Genere: Drammatico, colore, 111 minuti. – Produzione: USA, 2007 – Distribuzione: Lucky Red – Data di uscita: 11 luglio 2008.

funny_gamesNon è un remake nel senso classico del termine questo “Funny Games U.S.”. Il film scritto e diretto dall’austriaco, maestro della morbosità, Michael Haneke, assomiglia di più al trattamento che nel 1998 Gus Van Sant riservò allo “Psycho” di Hitchcock: un rifacimento pedissequo, scena per scena, battuta per battuta. La differenza sta nella dichiarazione d’intenti: Van Sant ha voluto rendere omaggio, colorandolo, uno dei film più famosi e importanti della storia del cinema, mentre Haneke ha rigirato negli States un suo film di dieci anni fa, ad uso e consumo del pubblico americano che, all’epoca, complice anche la lingua tedesca, aveva pressoché ignorato.

Ann, George senior e George junior, con cane al seguito, sono una tranquilla famiglia benestante che si reca nella propria casa sul lago in un’atmosfera apparentemente idilliaca e protetta. Li attende un week end di gite in barca a vela, grigliate e partite a golf. All’improvviso però si presentano alla porta due ragazzi vestiti di bianco e apparentemente gentili, già intravisti al loro arrivo nel giardino dei vicini. Con la scusa di chiedere delle uova in prestito, i due prendono in ostaggio la famiglia sottoponendola, senza un apparente motivo, se non per un crudele gioco, ad ogni genere di sevizia psicofisica. Nessuna speranza per un happy end.

L’operazione, aldilà dell’aspetto commerciale, secondo quanto dichiarato da Haneke, ha l’obbiettivo di raggiungere finalmente l’audience anglofona, considerata la maggiore fruitrice consapevole di violenza cinematografica. Perché “Funny Games” è un film sulla violenza, sui suoi meccanismi, le sue dinamiche, la fascinazione che provoca nello spettatore, solleticandone l’inconscio sadismo.

Ma ciò non semplicemente per soddisfarne gli istinti, quanto per attirarne l’attenzione fino ad intrappolarlo, costringendolo a bere per intero il suo feroce calice. Assai emblematica in questo senso è la famosa/famigerata scena del rewind in cui il pubblico sembra trovare uno spiraglio consolatorio o quantomeno giustizialista al dramma in atto, salvo poi assistere, in maniera clamorosamente spiazzante, al riavvolgimento della pellicola, tramite telecomando, un attimo prima del turning point che avrebbe dato uno sbocco diverso alla storia.

Un vero e proprio intervento da deus ex machina che Haneke ci impone in rispetto al suo manifesto ideologico: “La finzione è vera quanto la realtà che si vede nel film”.E questo è solo il più eclatante degli svariati ammiccamenti allo spettatore che gli aguzzini disseminano lungo il film, quasi a renderlo complice e corresponsabile di quanto avviene sullo schermo (o meglio fuori campo, visto gli atti violenti non ci vengono mai proposti direttamente), senza possibilità di fuga alcuna.

Bravissimi tutti gli interpreti che non fanno rimpiangere i loro predecessori semi sconosciuti, ad eccezione dello sfortunato Ulrich Mühe. Menzione particolare per la sempre più sorprendente Naomi Watts, espressamente imposta da Haneke alla produzione, che riesce, pur nella sua algida bellezza naturale, a calarsi perfettamente nei panni di una donna umiliata e annullata nella sua femminilità.

Per chi ha amato, come il sottoscritto, la versione del 1998, c’è un’altra bella notizia: nonostante la yankeezzazione del tutto, sono rimasti intatti i grandiosi titoli di testa del film, squarciati dalla violenza grind metal dei Naked City.

Vassili Casula

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