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Come il vento – Recensione

Una convincente Valeria Golino veste i panni dell’indomita direttrice di carceri nell’omaggio di Marco Simon Puccioni ad Armida Miserere

come-il-vento-locandinaArmida Miserere intraprende la carriera nell’amministrazione giudiziaria a metà degli anni Ottanta. Il suo lavoro la porta inevitabilmente ad avere spesso contatti con malviventi e criminali di ogni specie, in un ambiente così ostile riesce comunque a trovare l’amore. Il cuore dell’allora direttrice del carcere di Lodi batte per Umberto Mormile (Filippo Timi), educatore impegnato nella riabilitazione dei detenuti. L’attività di Umberto lo espone a pressioni e a tentativi di corruzione. Una mattina di primavera del 1990, dopo aver lasciato la casa in cui vive con Armida, viene ucciso nella macchina che lo avrebbe porta nel carcere di Opera, il suo posto di lavoro.

Liberamente ispirato alla storia di una delle prime donne a dirigere un carcere in Italia, “Come il Vento” riporta alla luce una discussa figura del nostro recente passato. Per descrivere il dipanarsi delle vicende di questo personaggio complesso e controverso, Marco Simon Puccioni sceglie di confezionare un film asciutto e poco incline alle ridondanze. Cinepresa puntata su chi, come Armida Miserere, indefessa servitrice dello stato, prende il lavoro come una missione e lo svolge con senso di giustizia e intransigente rigore morale. Un comportamento che le fa il vuoto intorno e le impone una profonda solitudine corroborata non solo da un mondo, quello delle carceri, fortemente maschilista ma anche dalla sottrazione violenta dell’amore, dalla mancanza di uno stato da lei rappresentato con determinazione e al quale chiede giustizia per il compagno ammazzato. Ma nella protagonista risiede una forza contrastante che Puccioni cerca di captare con un linguaggio rigoroso offrendoci la possibilità di apprezzare la fierezza, la passione e la fragilità di una donna mai doma fino al tragico epilogo.

Mentre in lontananza si avverte il fragore dello scontro tra Mafia e Stato che nei primi anni ‘90 visse i momenti più cruenti, il cammino professionale di Armida Miserere non si arresta perché  la direttrice si spinge là “dove nessuno vuole andare”: Pianosa, l’Ucciardone. Gian Carlo Caselli stesso, all’epoca procuratore del tribunale di Palermo, la convoca per ottenere dei luoghi sicuri dove interrogare il boss mafioso Giovanni Brusca fresco di cattura. Siamo sempre più ammirati ma nello stesso tempo ancora bisognosi di sapere e di capire con più precisione i pensieri, i difetti e le contraddizioni della Miserere. Probabilmente non è un limite della pellicola ma la naturale curiosità che suscitano i grandi personaggi o più semplicemente, le persone che cercano, nel nostro paese, di fare onestamente il proprio mestiere.

Riccardo Muzi

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