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C’era una volta in Anatolia – Recensione

“C’era una volta in Anatolia” racconto singolare, che intreccia una sorta di vicenda poliziesca con una profonda analisi dell’animo umano

(Bir zamanlar Anadolu’da) Regia: Nuri Bilge Ceylan – Cast: Yilmaz Erdogan, Taner Birsel, Ahmet Mümtaz Taylan, Muhammet Uzuner – Genere: drammatico-poliziesco, colore, 150 minuti – Produzione: Turchia, 2011 – Distribuzione: Parthénos – Data di uscita: 15 giugno 2012.

ceraunavoltainanatolia“C‘era una volta in Anatolia” è un film difficile da digerire, soprattutto per i 157 minuti di durata, che mettono a dura prova la resistenza dello spettatore; ma sarebbe un grave errore scoraggiarsi per questo, perché nel film di Nuri Bilge Ceylan ogni scena è pregna di significato.

Lo spunto per il film viene dall’esperienza di uno dei co-sceneggiatori, medico, che ha vissuto un’esperienza simile a quella dei protagonisti, vagando nella notte alla ricerca di una sepoltura.

L’ordito narrativo è costruito sulla ricerca di un cadavere nella notte, in una zona sperduta dell’Anatolia: gli inquirenti, su indicazione dell’assassino, reo confesso, tentano di trovare la sepoltura improvvisata in un campo, ma ciò che all’inizio pare una faccenda da sbrigare in un paio d’ore, si trasforma quasi in una caccia al tesoro.

L’assassino fatica a ritrovare il luogo, vuoi per la tensione, vuoi perché la scarsa luce notturna non facilita le ricerche; gli animi iniziano ad esasperarsi, e il freddo della steppa non aiuta.

Mano a mano che si va avanti con la storia, il regista intreccia la ricerca in atto con una graduale messa a fuoco dei singoli protagonisti, che mostrano allo spettatore le loro peculiarità attraverso i dialoghi con gli altri personaggi. Questi, che inizialmente appaiono semplici osservatori, gradualmente acquistano un ruolo sempre più rilevante, e le dinamiche dell’inusuale situazione portano alcuni dei protagonisti ad una profonda riflessione interiore.

Dai dialoghi dentro le tre macchine che compongono la carovana emerge tutto un mondo, specchio fedele di tradizioni e culture proprie dei luoghi in cui le vicende sono ambientate.

Ceylan ci offre una magistrale cornice al racconto, curando in maniera sopraffina l’ambientazione e il paesaggio, dove ogni singola pietra o rigagnolo sembra ritagliarsi una parte nella finzione cinematografica.

Alcune scene che potrebbero sembrare fini a se stesse sono invece importanti tasselli di una narrazione realistica dove la macchina da presa scruta uomini e cose mostrandoli nella loro essenza, per cui, se ad esempio viene scrollato un albero per farne cadere dei frutti, riprenderne uno mentre rotola giù per il pendio scosceso per fermarsi a valle in un rigagnolo d’acqua non è solo virtuosismo visivo, ma fedele riproduzione del reale, non fine a se stessa, ma funzionale alla visione d’insieme della situazione.

In una tale visione della finzione cinematografica, la riuscita del racconto è legata a filo doppio alla fotografia, che Tiryaki, abituale direttore della fotografia nei lavori di Ceylan, cura in modo ineccepibile. Le lunghe riprese notturne sembrano avere la luna come unica fonte di luce, e le immagini sono quasi seppiate, tanto da avere l’impressione di vedere una pellicola in bianco e nero.

Non tutti i film possono essere etichettati in un genere, “C’era una volta in Anatolia” è uno di questi: è come un bel libro, ostico ma affascinante, dove lo spessore del volume non può inficiare la bellezza della lettura.

Maria Grazia Bosu

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